Il latte della poesia, brevi considerazioni sull’inconscio e la creazione poetica

(dall’introduzione a Poeti e prosatori alla corte dell’Es, Animamundi, Otranto 2017)

I poeti danno alle parole una possibilità di vivere con i loro sogni.
E. Jabès
Chi dispone di “parole”, la lingua gli si nega. Chi si dispone alla lingua, anche le parole… lo trovano.
P. Celan
Quando scrivo, cerco di non capire quello che scrivo. […] Penso che una delle pecche della letteratura moderna sia quella di essere troppo consapevole di sé.
J.L. Borges

Due poesie mi chiedevano oggi di essere scritte: ho dovuto rifiutarle.
Mi dispiace, mia cara, troppo tardi. Mi dispiace, tesoro, non ancora.
W. H. Auden

Le vite dei poeti sono gravate più di altre dalle circostanze, lo sguardo sull’abisso sostiene il loro canto: un Io lirico fragile, a rischio continuo di deragliamento, ma in dialogo con gli strati più profondi dell’inconscio.
«Su noi profani ha sempre esercitato una straordinaria attrazione il problema di sapere donde quella personalità ben strana che è il poeta tragga la propria materia […] e come egli riesca con essa ad avvincerci, suscitando in noi commozioni di cui forse non ci saremmo mai creduti capaci. Il fatto che il poeta stesso, se lo interroghiamo in proposito, non sappia risponderci o ci risponda in modo inadeguato, non fa che aumentare il nostro interesse al problema.» (Freud, Il poeta e la fantasia)
Il padre della psicoanalisi continua il suo mirabile saggio paragonando, come è noto, l’attività del poeta a quella del bambino, entrambi costruttori di mondi di fantasia, grazie alla capacità di sognare a occhi aperti. Se il poeta è un adulto bambino, che prosegue e sostituisce l’età dei giochi, la sua ars poetica è mossa da desideri insoddisfatti:
«L’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa» (Freud, ib.).
Con la scoperta dell’inconscio, all’inizio del Novecento, i poeti diventano così «sublimizzatori di professione» (Saba, Lettere sulla psicoanalisi), gli unici, forse, capaci di trasformare le fredde e ripugnanti fantasie di tutti in opere d’arte.
Il modello utilizzato per spiegare il processo produttivo della creazione artistica è lo stesso di quello sviluppato per l’elaborazione onirica: «Una forte impressione attuale risveglia […] il ricordo di un’esperienza anteriore per lo più risalente all’infanzia, e da questo deriva ora il desiderio, che si crea il proprio appagamento nell’opera poetica; nella stessa opera poetica si rivelano elementi tanto del fatto recente che ha fornito lo spunto quanto l’antico ricordo» (Freud, ib.).
Il compito degli psicoanalisti resterà a lungo quello di scoperchiare l’inconscio di chi si affiderà al loro trattamento, attraverso la “via regia” offerta dai sogni, gli atti mancati, i motti di spirito e le fantasie inconsce (A); i poeti, viceversa, non smetteranno di entrare in contatto con gli strati più primitivi dell’inconscio, sostandovi anche a lungo e a costo di esserne travolti, per poter portare a termine la loro opera.
L’inconscio freudiano, bonificato e restituito all’orizzonte limitato dell’Io, attraverso adeguate interpretazioni (B), accontenta forse gli artigiani della parola, bisognosi di un terreno solido e protetto dove poggiare i loro attrezzi e cesellare con cura i singoli termini.
In esso non si riconoscono però molti poeti, testimoni di una forza misteriosa che li trascende e s’apparenta piuttosto all’Es groddeckiano o all’Anima Mundi di J. Hillman.
L’Es è un inconscio selvaggio, ubiquitario e totipotente, che non ammette espropriazioni di territorio e dirige tutto ciò che gli uomini fanno e tutto ciò che loro accade: «Non c’è affatto un Io, è una menzogna, una deformazione, quando si dice: io penso, io vivo. Dovrebbe essere: esso pensa, esso vive. Es, cioè il grande mistero del mondo» (Groddeck, Satanarium). Se per Groddeck l’inconscio resta impenetrabile e indefinibile, perché di esso «non si può parlare ma solo balbettare qualcosa […] se non si vuole che dal profondo emerga con clamore selvaggio la genia infernale dell’universo sotterraneo» (Il libro dell’Es), è lui stesso a riconoscere nei poeti «i soli portavoce di cui (l’Es) si serve» (ib.). Ed essi si mostrano messaggeri fedeli: la poesia come opera non appartiene loro. Essa, una volta creata, acquisisce un’autonomia tale da poter esercitare un’influenza sul suo creatore (come, per esempio, nel celebre caso di Pigmalione).
Per citare solo alcuni poeti, J. Cocteau affermava: «noi non scriviamo, siamo scritti» ; E. Sanguineti (Conversazioni sulla cultura del ventesimo secolo): «si è scritti oltre che scrivere e più che scrivere» ; E. Jabès, il più dissacrante di tutti: «forse ho scritto un solo libro […] ed era già scritto» (Il libro dell’ospitalità). C. Milosz, infine, (La testimonianza della poesia) sosteneva di «essere stato tutta la vita in potere di un Daimon» che gli dettava i suoi versi.
Qualcosa che va e che viene, a volte imprendibile, altre palesandosi improvvisamente
dietro un angolo, la poesia è sicuramente «più vicina al miracolo che al mestiere» (A. Blandiana, Poesia come arte dell’immagine). L’arte del poeta non consiste infatti nell’utilizzare le parole più appropriate per descrivere un evento o un pensiero anche profondo: «L’arte accade» , scrive J.L. Borges (L’invenzione della poesia), ogni volta che leggiamo una poesia, che sorprende tanto il poeta quanto il lettore perché riporta il linguaggio alla sua fonte originaria. Per dirla con F. Loi (La luce della poesia): «Se nel parlare comune la parola è assunta in riferimento a un “valore convenuto”, nel dire poetico la parola è espressa a significare il rapporto tra l’uomo e la cosa, perciò a riscoprire la cosa». Potremmo affermare che, mentre la prima è «fossile, archivio della storia e tomba delle muse» (W.R. Emerson, Essere poeta), la seconda è parola viva, indistinguibile dalle emozioni e da quanto la circonda, inseparabile dall’ “ombra” che l’accompagna, in sostanza psicosomatica.
Come si fa a restare leali alla propria immaginazione (al proprio Es, che nella poesia diventa messaggera dell’inconscio collettivo, voce dell’anima del mondo), a pazientare di fronte all’indicibile, a resistere alla tentazione di passare a lucide argomentazioni, a evitare cioè di trasformare «un dado di movimento in un dado di serraggio» (E. Jabès, Desiderio di un inizio Angoscia di una fine)? Se è vero che «nei sogni siamo veri poeti» (R.W. Emerson, ib.) bisognerebbe «semplicemente comunicare qual è il sogno» , seppur confuso e offuscato, senza cercare di abbellirlo o di capirlo, come afferma Borges quando parla del suo personale rapporto con la scrittura? Non esiste forse una sola via per far risuonare l’inconscio, trasformando un’immagine mai vista e al contempo invisibile in un «simbolo felice» (Emerson, ib.). Per alcuni il poeta dev’essere una «persona molto forte», capace di «imbrigliare le emozioni», fare «quello che un cow- boy fa con i cavalli» (D. Bisutti, La poesia salva la vita), in sostanza un domatore dell’inconscio. Questa immagine si apparenta forse al mito del puer, all’idea che l’età d’oro della poesia sia quella giovanile, piuttosto che al senex, più portato a un lavoro analitico e quindi al racconto, allo svolgimento di un’opera pedagogica invece che di rivelazione (F. De André) . Per altri «ogni scrittore è un pattinatore: deve andare in parte dove lo portano i pattini; o un marinaio, che può approdare solo dove le vele possono lasciarsi sospingere» (Emerson, ib.). L’immagine forse più pregnante è quella della poetessa A. Sexton, secondo la quale «la poesia munge l’inconscio come fosse latte. L’inconscio è lì per nutrire la poesia con piccole immagini, piccoli simboli, risposte, intuizioni che neppure io conosco» . Ciò che resta centrale per tutti è un accesso privilegiato all’inconscio, anche se questo può travolgere, aprire squarci di verità che non sempre salvano.
Ci viene ancora in aiuto la lezione di Freud che parlava dell’opportunità di accecarsi artificialmente quando ci si trova di fronte a un tema oscuro: una posizione creativa ed elemento chiave per la capacità di essere disponibili alla scoperta, come più recentemente rilevato dallo psicoanalista W. Bion (C). Significativa per questo autore è la capacità negativa associata alla rêverie materna, strumenti che hanno rivoluzionato il lavoro psicoanalitico e concorso allo sviluppo di un nuovo approccio sulla funzione del pensiero e il sogno come il Social Dreaming di G. Lawrence . Per una sorta di circolarità virtuosa, entrambe le modalità sono intimamente legate alla “seconda natura” del poeta. La «Negative Capability» era già stata preconizzata da J. KeatsD come la capacità «di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio, senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione» . Questo atteggiamento favorirebbe la vulnerabilità, la permeabilità e l’intuizione, tutti elementi fondamentali per chi ambisce a scrivere versi e, a parere del poeta romantico inglese, posseduta in sommo grado proprio da W. Shakespeare.
Il concetto di rêverie, cioè la capacità materna di prestare la propria mente al bambino (E), rimanda senz’altro a una dimensione antropologica universale ma anche a una forma specifica di esperienza strettamente connessa al fare poesia. Ogni pensiero inizia con essa, ogni parola nuova ci raggiunge prima dei concetti ai quali è associata. La poesia precede sempre la prosa, ricorda la storia dell’umanità che si rinnova nell’infanzia dell’uomo. Secondo C. Bollas (La mente orientale) la poesia ha una forma sintattica più semplice e vicina al linguaggio orientale con «la creazione di strutture musicali di parole che catturano il sé con esperienze intense che coinvolgono tutto l’essere» . La prosa, viceversa, è occidentale, basata su espressioni verbali più articolate e complesse che ci lasciano meno liberi, sacrificando l’invenzione a favore dell’argomentazione. Non in contrapposizione, seppur non facilmente conciliabili, afferiscono l’una al codice materno e l’altra al codice paterno, a porzioni della mente che si attivano diversamente. Forse per questo alcuni poeti faticano a scrivere in prosa e viceversa. I. Brodskij, che vedeva nella composizione di una poesia uno «straordinario acceleratore mentale» che consente di creare connessioni e legami inaspettati, in una delle sue ultime interviste (Conversazioni) ricordava come «l’estetica che nasce dalla poesia è un’estetica della fusione» proprio tra approccio orientale e approccio occidentale. E aggiungeva ridendo «giusto?» . E per diverso prelievo, lo stesso poeta russo ammoniva: «Le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli, quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono» (Il suono della marea) .

GIANCARLO STOCCORO

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